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Lode al film perfetto e al film più imperfetto di Venezia 2015

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anomalis

C’è un filo extratestuale che accomuna Anomalisa di Charlie Kaufman e Duke Johnson e A Bigger Splash di Luca Guadagnino, quello di essere stati eletti al ruolo dei più “esposti”di un festival del cinema. Si è parlato di tutti i film del concorso Venezia 72, ma nessuno quanto questi è affiorato all’attenzione di critica e pubblico, determinando una equivalente suscettibilità di opinione. Due storie che guardano al privato, differenti per cifra narrativa, in cui il racconto si realizza in modo così personale, radicale nella forma, da risaltare agli occhi di chi guarda. Compiuto ed essenziale il film d’animazione di Kaufman/Johnson, accolto con consensi pressoché omogenei; magmatica e spezzata è invece l’opera di Guadagnino, che ha offerto il fianco a dissidi e malumori. Ma è anche in virtù di una risonanza mediatica – è mancato il film scandalo quest’anno, a qualcosa ci si doveva pur attaccare – che Guadagnino e Kaufman/Johnson sembrano stati gli unici a osservare le oscillazioni dell’intimo umano in maniera altrettanto diretta ed efficace. Dunque, esiste anche un filo testuale che lega A Bigger Splash ad Anomalisa: raccontare quanto possa essere complessa e stratificata l’elaborazione del desiderio; e mostrare come l’emotività umana possa inframmezzarsi, talvolta avvicendarsi, alla realtà, al punto da alterarne i connotati, da rifondarne la parvenza.

Una conferenza di lavoro porta Michael a separarsi per un giorno dalla famiglia. Di Michael, l’archetipo dell’uomo comune, riconosciamo immediatamente la frustrazione e la noia. Atterrato a Cincinnati, cerca di intrattenersi come può, nella sua camera d’albergo, ripetendo il discorso che dovrà esporre l’indomani. Poi, preda di una timida e nervosa inquietudine,decide di contattare una ex fiamma frequentata qualche tempo prima in città. A questo punto della storia, scopriamo che c’è qualcosa di molto bizzarro nel mondo in cui si muove Michael: tutte le persone con cui interagisce – la moglie, il figlio, il facchino dell’albergo, la ex – hanno la stessa voce, una voce maschile che potrebbe appartenere a un uomo sulla cinquantina, proprio come lui.

La messa in scena diventa straniante e questa sensazione di spaesamento perdura fin tanto che Michael non incontra Lisa, l’anomali(s)a del suo sistema-mondo, una ragazza tenera e insicura, la sola a possedere una voce non uniformata, l’unica capace di risvegliare in lui un desiderio autentico. Soltanto allora, comprendiamo cosa accade a Michael e quale sia la natura del suo punto di vista.

Kaufman adotta una precisa strategia narrativa in Anomalisa: non racconta il conflitto interiore del personaggio attraverso le azioni che esso compie all’interno di un mondo a lui contrapposto, percepito come lontano e ostile; racconta le proiezioni interiori che quel personaggio riversa in un mondo che ha già introiettato i motivi della soggettività del suo protagonista. La metamorfosi, non è in divenire, è già compiuta, il conflitto interiore del personaggio è ormai integrato nell’universo narrato.

Date queste premesse, viene spontaneo richiamare a mente il primo film sceneggiato da Kaufman e diretto da Spike Jonze, Essere John Malkovich, presentato proprio a Venezia, fuori concorso, nel ‘99. Nella scena madre del film, Malkovich, preso atto dell’esistenza di un’entrata segreta che può condurre alla sua mente, vi accede scoprendo che è un ristorante, frequentato da donne e uomini che portano la medesima faccia e la medesima voce: la sua appunto. Ancora, come in Eternal Sunshine of the Spotless Mind (in questo caso di Kaufman è la sceneggiatura, alla regia c’è Michel Gondry) la società che si occupa di cancellare i ricordi dalla mente ha il metaforico nome Lacuna, in Anomalisa l’albergo in cui Michael trascorrerà ventiquattrore, l’intero arco di tempo in cui si svolge il film, prende il nome dal disturbo che altera la sua percezione: Fregoli. La sindrome di cui Michael è affetto entra quindi nel racconto in tre modi: marcando il punto di vista, circoscrivendo il tempo e chiarendone lo spazio scenico.

Se Michael è preda di un corto circuito esistenziale che soltanto Lisa pare essere in grado di spezzare, è pur vero che all’interno di questo sistema-mondo, Lisa non rappresenta che un’eccezione; dunque, l’innamoramento, per Michael, non può che avere vita breve; di fatto, Kaufman ci ha già detto cosa pensa dell’amore e della vita, fin dal primo film: il compimento ultimo dell’esistenza risiede nell’eterna reiterazione dei propri errori.

Anomalisa raccoglie tutti i motivi del cinema di Charlie Kaufman, asciugati dall’eccentricità, ridotti ai minimi termini. Sparisce il Kaufman/Cusack burattinaio, spariscono gli attori in carne e ossa: i protagonisti diventano i pupazzi a passo uno. Svaniscono i mondi paralleli e i livelli narrativi (caratteristiche strutturali di Synecdoche New York e del Ladro di orchidee): il racconto trova un’unità di tempo, spazio e azione. Scompare il Kaufman/Carrey rannicchiato sotto al tavolo di cucina che partecipa al completamento della sua regressione infantile: le invenzioni lasciano il posto al racconto della vita quotidiana, di personaggi comuni. L’autore sposa in Anomalisa una narrazione lineare, e trova nell’animazione in stop motion lo strumento adatto per la trasfigurazione della sua poetica, dei suoi disordini emotivi, in definitiva di se stesso.

E la cosa più bella di tutto questo è che trascorsi i primi dieci minuti – una volta che ci si è ambientati nel sistema-mondo di Kaufman/Michael – vuoi che i pupazzi non si muovono in maniera fluida, vuoi che la loro faccia sia composta di pezzi assemblati come quella di una specie di cyborg, vuoi che la storia sembri generata dallo spirito di Kafka transitato nel corpo di Raymond Carver, però il cuore comincia a battere,e quel battito, vuoi e vuoi, una volta partito, non se ne va più.

Dunque, là dove Kaufman/Johnson toccano le corde delle emozioni primarie,per mezzo di un racconto dall’impianto classico, narrato in una prima persona “assoluta”; Guadagnino immerge il proprio materiale nella piscina della complessità emotiva, e lo gestisce attraverso un racconto diviso a metà, in cui il punto di vista si configura sfuggente, di difficile identificazione.

Nella serie pittorica A Bigger Splash di David Hockney – da cui il regista siciliano prende il titolo per il suo film, un libero rifacimento di La piscina di Jacques Deray – la figura umana è omessa dal quadro. All’osservatore è lasciato il compito di saturare la contingenza. L’istante dello “splash”, La fontana di zampilli d’acqua generata da un tuffo, è la conseguenza di un’azione che resta sottintesa; nell’allusione giacciono le tracce di una fonte. La domanda che viene spontanea osservando A Bigger Splash di Hockey è: chi si sarà tuffato? L’identità viene elusa, custodita nel tempo oltre il quadro, nel fuoricampo dell’immagine: a chi guarda il dovere di osservare l’effetto, il lavoro di supplire a un’omissione.

Adesso, Guadagnino, ha realizzato un’opera che, come quella di Hockney, ha del sospeso, del misterioso. Per buona parte del film mette in scena le vicende di interazione di quattro personaggi, senza chiarire quale di loro sia il vero motore dell’azione e dove la storia intenda andare a parare. In particolare: sembra interessato a scrutare il movimento generato dalle relazioni, gli afflati seduttivi, l’espressione fluttuante del desiderio,piuttosto che a costruire dei fatti concreti di sviluppo, utili a una progressione in funzione del finale. Il vero e unico punto di vista risiede altrove, è il deus ex machina che tutto può: raccontare un intreccio sottile e sofisticato per poi disfarlo, secondo il proprio, incontrovertibile esercizio di narrazione – ed è questo che il regista di Io sono l’amore precisamente fa.

Attorno alla piscina di una villa a Lampedusa e nelle gite di esplorazione delle zone circostanti, si consumano le dinamiche relazionali di due coppie: due amanti, un padre e una figlia. L’armonia tra l’ex stella del rock Marianne Lane (Tilda Swinton) e il compagno Paul (Matthias Schoenaerts), un uomo prestante e più giovane di lei, si incrina con l’arrivo di Harry (Ralph Fiennes), il vulcanico ex produttore musicale di Marianne, e della di lui figlia, la ventenne Penelope (Dakota Johnson). La scrittura di David Kajgani che riesce a imprimere nei personaggi un realismo magnetico: il temperamento e il bagaglio emotivo di ciascuno si avvera gradualmente, in modo preciso e tuttavia opaco,attraverso scene di bella vita (quotidiana) e scambi verbali densi. Guadagnino mette in scena quella che lui stesso ha definito una “stanza mentale”, in cui la sola irregolarità manifesta risiede nel mutismo di Tilda Swinton, che presta corpo e anima a una meravigliosa icona rock (attinenza e omaggio a David Bowie) che ha perso le corde vocali.

Il film procede raccontando questi personaggi egocentrici e inquieti, avvolti nella malizia, nel chiaroscuro, rilasciando in modo cadenzato gli effetti della massa ambientale: acqua, sabbia, scogli, polvere, fango, vento e piccoli animali. La natura e i suoi motivi sfiora, distrae, interviene appena nella vita dei protagonisti. Accenni di una oggettività complice dell’incanto, e al contempo estranea, di un mondo elitario intriso di fermenti emotivi puri, accuratamente indagati. Poi il punto di vista si sposta: dall’inebriante, partecipata descrizione di un microcosmo inabissato(si) in un edonismo platonico, Guadagnino squaderna l’iperrealismo della contingenza, dell’evidenza. La materia cinematografica assume un’altra forma, l’alchimia a quattro si rompe, arriva il personaggio interpretato da Corrado Guzzanti, la storia imbocca un’altra direzione, la grana del racconto si fa più grossa: sopraggiunge una ammissione di realtà, fatta di altri toni.

Tutto questo non solo ha senso, ha coraggio e determinazione autoriale. Anche per questo A Bigger Splash è un film di una potenza cinematografica impressionante, per la capacità di evocare tensioni, addensare intimità e suggerire divari, in modo crescente, attendibile, pervasivo, e poi sostenerne la dissoluzione, lo spaesamento. Hockney ha scelto di accantonare la figura umana per concentrarsi sull’effetto che può suscitare l’atto di immortalare un tuffo in piscina. Luca Guadagnino lascia l’idea fissa per abbracciare il vuoto – là dove non c’è il rock, non c’è il noir, non c’è il sexy: là dove io non c’ero.


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